Un santo consolatore: i miracoli compiuti in vita da San Galgano
L’impervio itinerario ascetico intrapreso da Galgano a partire dalla vigilia di Natale del 1180, quando rinunciò a recarsi a Civitella dove avrebbe dovuto impalmare Polissena, per ritirarsi sulla collina di Montesiepi, benché caratterizzato dal desiderio della solitudine, non escluse certamente l’accoglienza del prossimo.
È certo, del resto, che la notizia che il giovane ed altero cavaliere di Chiusdino fosse diventato un penitente eremita, si sia sparsa velocemente nei dintorni, suscitando le reazioni più disparate, dallo stupore alla derisione ma non lasciando nessuno indifferente, cosicché in breve Galgano vide accorrere al suo eremo gens non modica et turba plurima, come scrive verso la metà del Duecento il suo primo biografo, ovvero nobili e popolani in gran numero.
Agli occhi del uomini del Medio Evo, infatti, gli eccezionali comportamenti ascetici degli eremiti, la solitudine del luogo che si eleggevano come dimora, i digiuni e le penitenze dolorose che si infliggevano, le privazioni e le macerazioni cui sottoponevano il loro corpo, armi da essi adoperate nel loro combattimento spirituale contro la propria natura e contro le forze del male, non solo aureolavano i nomi dei solitari di prestigio, ma facevano sì che si attribuissero loro poteri sulla natura e sugli animali e doni taumaturgici e queste convinzioni erano sovente corroborate dalla realtà dei fatti.
Nel verbale del processo di canonizzazione si leggono varie testimonianze di come il nostro caro santo accogliesse con sorriso di amore quanti accorrevano a lui e che non negasse a nessuno né il suo consiglio né la sua preghiera e che taluno, mercé la sua intercessione, ricevette il dono della guarigione dopo un periodo di triste sofferenza: l’inno dell’Ufficio liturgico di San Galgano, così infatti recita:
“Claudos, leprosus, languidos,
captivos et invalidos,
quos languor longus tenuit
ad pristinum restituit
per ipsum coeli Medicus”
Zoppi, lebbrosi, febbricitanti,
prigionieri ed invalidi,
e coloro che la febbre tiene a lungo stretti,
il Medico del Cielo [cioè Gesù]
restituisce alla primitiva salute
per l’intercessione di lui [cioè di Galgano].
Pochi giorni dopo che il giovane ebbe presa la soluzione di stabilirsi definitivamente sul Montesiepi, preoccupata che il figlio avrebbe potuto soffrirvi la fame ed il freddo, ecco che sua madre, Dionisia, gli inviò un po’ di cibo. Forse fra questo, c’erano quei tria frustra panis saginei, letteralmente tre pezzi di pane ingrassato, cioè farcito di piccoli pezzi di grasso – io penso essersi trattati di quelli che a Chiusdino si chiamano sfrizzoli, deformazione vernacolare di strizzoli, residui di lavorazione del tessuto adiposo sottocutaneo del maiale, impiegato per la produzione di strutto, in sostanza: pezzetti di lardo cotti e quindi torchiati o strizzati, per privarli del grasso, da cui il nome; altrove son detti ciccioli – che divennero protagonisti del primo miracolo del Santo.
Quando, qualche giorno dopo, si presentò al Santo un tal Giovanni, di Chiusdino, infatti, Galgano gli consegnò quei tre pezzi di pane coll’incarico di darlo ai primi tre poveri che avesse incontrato. Non avendo incontrato nessuno, Giovanni portò il pane a casa e lo consegnò alla moglie raccomandandole di darne a tre poveri il giorno seguente, come il Santo aveva ordinato di fare. La donna prese quei pezzi di pani, li avvolse in un panno pulito, e li pose in un armadio. Il mattino seguente, quando andò per prenderli, anziché tre ne trovò sei …
Giovanni testimoniò che la notizia di questa moltiplicazione di pani si sparse velocissimamente per Chiusdino e che i chiusdinesi accorsero in casa per constatate il miracolo e che ognuno poté prendere un pezzetto di quel cibo.
La tradizione di distribuire i panini benedetti al termine della Messa del Giovedì Santo, che si fa a Chiusdino da parte dell’Inclita ed Insigne Compagnia di San Galgano, forse è motivata anche dal ricordo di questo miracolo.
Anche Pagano de Nocetia – che è uno dei Pauperes Christi, dei Poveri di Cristo, che vivevano insieme a Galgano sul Montesiepi – narrò ai giudici che indagavano per ordine del Sommo Pontefice sulla santità di Galgano, un episodio simile. Alcune donne provenienti dalle parti di Arezzo, si recarono dal Santo conducendo una fanciulla con le mani contratte. Galgano comandò alla fanciulla “di stendere le dita di entrambe le mani e raccogliere tre denari – un nome non generico ma specifico per indicare la moneta che il comune di Siena aveva appena coniato – ed un pezzo di candela”. È possibile che Galgano abbia voluto far compiere degli esercizi di prensilità alla fanciulla per verificare l’effettiva funzionalità delle sue mani o addirittura la veridicità delle affermazioni delle sue accompagnatrici. Costatato l’handicap della fanciulla, il Santo raccomandò alle donne di pregare per lei iuxta spatam, cioè vicino alla spada. Anche in questo caso sembra che Galgano abbia voluto educare i suoi interlocutori (Le sue interlocutrici) ad una religiosità matura che non collegasse il miracolo al contatto quasi magico con una persona o con un luogo, ma all’efficacia della preghiera, cioè all’indispensabilità della fede, cosicché dopo una notte di preghiera, mane sequentis diei, il mattino del giorno dopo, invenerunt eam liberatam, trovarono quella liberata dalla sua malattia, cioè guarita.
Un certo Girardino, proveniente da Castiglione iuxta Umbronem, cioè Castiglione del Bosco, nell’attuale comune di Montalcino, tra questa cittadina e il paese di Buonconvento, testimoniò dinanzi ai legati pontifici quod quedam mulier Placentina, che una certa donna di Piacenza (oppure: una certa donna di nome Piacentina) aveva una mano contratta da otto anni. La donna aveva inutilmente compiuto pellegrinaggi ai sepolcri di molti santi e perfino alle tombe degli apostoli a Roma. E proprio a Roma, in sogno, le era stato rivelato che recandosi dal beato Galgano avrebbe ottenuto la guarigione così che giunta piena di fede a Montesiepi fu dal Santo guarita dalla sua infermità.
Due miracoli sono stati invece annunciati da Galgano quando era ancora in vita, ma sono avvenuti poco dopo il decesso di lui.
Il primo riguarda il figlio di un altro Girardino, detto di Bindo – o di Brando, secondo un altro documento – anche lui chiusdinese come Giovanni, un ragazzo che in alcune antichissime fonti è detto chiamarsi Landutus, in italiano forse Landotto, e che aveva le gambe e le braccia contratte (si indicavano nel Medioevo con questo termine le patologie riconducibili alla paralisi, all’artrosi, alla poliomielite, alla spasticità). Il povero Girardino si recò piano di speranza da Galgano, il quale “dopo una breve attesa gli disse: Figlio, abbi fiducia nel Signore, tuo figlio sarà guarito ed ancora lavorerà con le sue mani”.
Qui debbono notarsi due cose: la prima è che il Santo invitò Girardino ad avere fiducia nel Signore, la seconda che assicurò che il miracolo sarebbe avvenuto ma non subito.
Perché?
Credo che Galgano abbia voluto capovolgere la mentalità di chi credeva che la funzione degli uomini di Dio fosse quella di risanare e non di richiamare con il loro esempio ad una conversione autentica e durevole, e soprattutto che abbia voluto ribadire che il potere taumaturgico che gli veniva attribuito non trovava origine in una sua particolare facoltà umana ma era un dono di Dio, subordinato all’abbandono fiducioso del richiedente alla misericordia di Dio.
Landotto infatti ottenne la desiderata guarigione, ma soltanto dopo la morte del Santo: avuta notizia che Galgano era deceduto, Girardino pose il figlio su di un asino e si recò a Montesiepi. La giuntò, aiutò il figlio a scendere dicendogli di provare ad andare con le sue gambe fino alla tomba del santo. Il ragazzo allora ad tumulum laetus accessit, si avvicinò lieto al sepolcro e letior, ancor più lieto cioè, per l’avvenuto miracolo, domum suam est reversus, se ne tornò a casa propria.
Il secondo miracolo annunciato da Galgano ma non compiuto immediatamente, bensì dopo la sua morte, è descritto da Isacco e Strinato, due eremiti che forse avevano già vissuto insieme al Santo sul Montesiepi e che ancora vi risiedevano durante l’indagine relativa alla santità di lui, sacerdos, sacerdote, il primo, e conversus, converso – cioè che pur vestendo l’abito monastico non aveva formulato i voti religiosi – il secondo. Essi testimoniarono che Galgano aveva ricevuto nella sua capanna una tale Sibilia civis Massana, Sibilia o forse Sibilla, della città di Massa Marittima, una povera donna che era oggetto di una possessione demoniaca già da sette anni e che l’avrebbe assicurata delle sue preghiere. Forse fu in seguito a quest’incontro, che la povera donna vovit se Deo et sancto Galgano, si votò a Dio e a San Galgano, che se fosse stata liberata, toto tempore vitae suae assumeret habitum heremitarum, per tutto il tempo della sua vita, avrebbe assunto l’abito degli eremiti.
L’efficacia delle orazioni di Galgano fu constatata otto mesi dopo questo incontro, quando lui era già morto: liberata dalla vessazione del demonio, Sibilla adempì il voto che aveva fatto, vestì l’abito degli eremiti e, secondo il costume dell’epoca, che sconsigliava alle donne di vivere in luoghi isolati, condusse un’esistenza da eremita in casa propria per tutto il resto della sua vita.
Andrea Conti